Pubblicato da franco carlini su Febbraio 1st, 2007
Quando due liberisti del calibro di Franco Debenedetti e Francesco Giavazzi levano contemporaneamente la loro voce ammonitrice contro qualcosa, a noi viene immediatamente il dubbio che quella cosa forse sia buona. Se poi l’indignazione viene espressa in editoriali del Sole 24 ore e del Corriere della Sera, il dubbio si fa quasi certezza. Vediamo.
Il governo la settimana scorsa ha creato un fondo di investimento, chiamato F2i, fondo italiano per le infrastrutture. Parte con una dotazione di un miliardo di euro che vengono dalla Cassa Depositi e Prestiti, nonché da UniCredit, Intesa San Paolo e diverse fondazioni bancarie. Amministratore delegato è Vito Gamberane, ex Sip, ex Autostrade. Un altro miliardo sperano di raccogliere sui mercati internazionali. Con questi euro il fondo investirà sul lungo periodo, operando specialmente nel campo delle infrastrutture. Ecco dunque le partecipazioni nella rete di distribuzione elettrica (Terna) e in Snam Rete Gas. Secondo Giavazzi quei soldi verranno prossimamente investiti anche nella rete fissa di Telecom Italia, realizzando così, dopo mesi di polemiche, l’idea cui aveva lavorato il consigliere economico di Prodi, Angelo Rovati. Quel progetto venne reso noto polemicamente a metà settembre da Tronchetti Provera, che ne passò copia ai soliti due giornali, sempre Il Sole e sempre il Corriere, perché lo usassero come clava contro Prodi, compito diligentemente assolto senza nemmeno scrivere «riceviamo e volentieri pubblichiamo».
Secondo l’ex senatore dell’Ulivo Debenedetti, il fondo F2i disegna «un programma neostatalista», un ritorno in altre forme alle esperienze delle partecipazioni statali. Tira aria di «controriforma», scrive il senatore, e si meraviglia che la privatizzazione di Telecom Italia sia ancora criticata, «anziché essere considerata un capolavoro». Nientedimeno.
Vale la pena invece di considerare seriamente e ottimisticamente quanto i due temono. Le cose potrebbero andare così: dopo lunghe trattative con lo stesso governo, Guido Rossi, il presidente attuale di Telecom Italia (TI), scorpora la rete fissa e ne fa una società a parte, come del resto Tronchetti Provera propose nel famoso consiglio di amministrazione dell’11 settembre scorso. Dopo di che il fondo, e magari altri investitori, entrano nel capitale azionario, eventualmente creando un patto di sindacato.
Da un’operazione del genere discendono alcune conseguenze:
(1) certamente TI perde il controllo totale di un bene fondamentale come la rete, ma con i soldi dei nuovi investitori riduce il suo debito e questo denaro risale la catena di controllo, alleviando le pene del suo maggiore azionista, Olimpia, più a monte di Pirelli e in ultima analisi di Tronchetti Provera. In ogni caso il risanamento finanziario di TI sarebbe cosa fatta.
(2) si risolve per strada anche un altro problema: Antitrust e Autorità delle comunicazioni ottengono una separazione strutturale della rete fissa, la quale non può più essere usata da TI come strumento anticoncorrenziale; a quel punto sulla rete possono viaggiare i bit di tutti gli operatori, senza discriminazioni, così come sulle autostrade tutti possono viaggiare, pagando un pedaggio uguale per tutti.
(3) Il fondo può farsi carico della modernizzazione della rete, realizzando, a imitazione della Bt inglese e della Verizon americana, un Next Generation Network, una rete digitale di nuova generazione, che copra tutta l’Italia, a banda larga. Gli investimenti necessari sono almeno dell’ordine dei 10 miliardi di euro e la TI attuale, con i suoi debiti e difficoltà, difficilmente ce la farà da sola. Non almeno in tempi brevi. Grazie ai nuovi capitali, invece, il paese verrebbe dotato di una infrastruttura essenziale per lo sviluppo.
Le obiezioni quali sono? Quelle liberiste le abbiamo accennate e paventano un ritorno all’interventismo dello stato se non nella gestione diretta, quanto meno nelle strategie industriali. Ad esse si può rispondere che non c’è nulla di scandaloso e molto di doveroso, invece, nell’agire dello stato in un settore cruciale, favorendo l’uso pubblico di un bene comune. La prima Internet del resto nacque proprio così in America e solo quando matura venne rimessa sul mercato. In questo caso non avverrebbe come gestione diretta e nemmeno come controllo maggioritario, dato che la presenza della Cassa Depositi e Prestiti nel fondo sarà attorno al 10 per cento.
A Debenedetti e a Gavazzi si può anche far notare che questo intervento avverrà, se avverrà, a fronte della verificata incapacità del capitalismo italiano di fare i propri interessi, dato che in Telecom hanno fallito, in forme diverse, prima l’iniziale piccola cordata degli Agnelli, poi Colaninno e infine Tronchetti Provera. Andrà ricordato che le due ultime scalate hanno avuto come effetto netto di far diventare prima tedesca e poi inglese Omnitel (un caso italiano di grande successo, che ora è rosso Vodafone) e di trasformare un brand italiano di valore, Olivetti, in una scatola finanziaria e poi in un marchio orfano, da museo della civiltà delle macchine. Per strada inoltre sono volati via anche dei pezzi pregiati di Pirelli e il tutto senza riuscire a fare di TI una società di valore in borsa. Dov’è il «capolavoro»?
In questa partita che si è appena aperta già sono state avanzate da destra anche obiezioni politiche: il governo di centro sinistra, in accordo con le banche amiche, muove alla riconquista del potere economico o quantomeno ad alleanze robuste, finanziarie e industriali. Il che sembra realistico ed è forse la parte più vera del programma dell’Unione, pur se non compare in nessun «albero del programma». Anche gli scontri tra i promotori del partito democratico potrebbero essere letti in questa luce di riorganizzazione del capitalismo italiano.
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