31 dicembre, 2010

Perché io sto con la Fiom

di Pierfranco Pellizzetti
Docente di politiche globali

Punto primo: l’economia è troppo importante perché venga abbandonata nelle mani degli economisti (e dei top manager). I sedicenti “esperti” della materia, quelli che conoscono (?) le ricette giuste (one best way, direbbe il duo Taylor-Ford) e poi – a posteriori – ti spiegano perché le cose sono andate in maniera diametralmente opposta a come avevano previsto; i presunti “titani d’impresa”, quelli che hanno in tasca (?) la soluzione “oggettiva” e poi ti accorgi che le loro scelte obbedivano semplicemente a criteri adattivi ed opportunistici. Eppure c’è sempre chi ha la spudoratezza di affermare (specie se “americanista credere-obbedire-combattere”, tipo Noisefromamerika) il principio fideistico che “non si deve disturbare il manovratore”.

Punto secondo: ho trascorso una non trascurabile parte dei miei trent’anni (trent’anni fa) in meeting di Confindustria e dintorni sulla “responsabilità sociale dell’impresa”, sul “profitto come misura di efficienza”. Ho pure organizzato (e una volta presieduto) quei convegni dei Giovani Imprenditori in cui si discuteva di “alleanze varie tra produttori”. Quei Giovani Imprenditori che negli anni Settanta si atteggiavano a punta avanzata della borghesia illuminata e ora si riuniscono a Capri o Santa Margherita, in rigorosa tenuta da rampanti, a celebrare i riti del revanscismo (e subito dopo fiondarsi in discoteca).

Forte di tali esperienze di vita vissuta (e qualche paginetta letta sull’argomento o magari scritta), ho maturato la convinzione che quanto davvero conta in materia di ricchezza prodotta e distribuita sono i puri e semplici rapporti di forza: si dice “efficienza” ma si legge “potere”. Il potere di presidiare varchi dove le persone sono costrette a passare, di monopolizzare opportunità.

Venendo a noi, le scelte della Fiat sono tali perché la controparte lavoratrice è troppo debole, mentre fortissime sono le pressioni degli investitori d’oltre oceano. Cui si aggiunge il viatico dei tipi come il ministro Sacconi, sulla cui pelle ancora bruciano gli schiaffoni presi quando era craxiano, e la voglia di annientare la controparte sindacale di chi non ha dimenticato le strizze di lontani Autunni Caldi. Ma queste ritorsioni vendicative sono solo il contorno, seppure sgradevole: il punto vero è che non ci sono più contrappesi all’opportunismo adattivo del signor Marchionne. E lui va dove lo porta il vento (dei tempi). Ferma restando la povertà di una ricetta che si fonda sull’aggressione di un fattore produttivo – il lavoro – che incide sul costo del prodotto in percentuali più che modeste (un 7%?).

Ma qui non siamo più in ambito di calcoli economici, ci troviamo nel campo della pura e cruda tecnologia del Potere; dove anche gli aspetti simbolici mantengono una loro importanza. In questa chiave chiarisco il motivo per cui – vecchio borghese di cultura liberale – dichiaro di stare dalla parte dell’unico soggetto che dà ancora segnali di non voler accettare lo stato generale delle cose: la Fiom. Per la semplice ragione che oggi solo questa struttura sindacale dimostra di poter svolgere un ruolo di contropotere nei confronti del pensiero unico di questi anni, al servizio di un mastodontico trasferimento di ricchezza dall’area centrale della società ai piani elevati. Il tutto raccontato come necessità economiche altamente opinabili, visto che trattasi di decisioni di potere su chi deve pagare il costo del capitalismo in crisi.

Un disegno avviato con la corsa alle localizzazioni produttive in luoghi dove esistevano o si creavano condizioni occupazionali tendenzialmente servili (in Cina l’ora lavorata costava 50 centesimi, contro i 25 dollari europei e nordamericani). Una sorta di dumping che presuppone come “oggettivo” quanto tale non è: la schiavitù dei lavoratori nelle aree di nuova industrializzazione.

Comunque, operazione che necessitava lo smantellamento di quella parte dell’organizzazione del lavoro che ancora si opponeva alla strategia. E così fu, con pezzi di sindacato che hanno accettato di salvare le proprie nomenclature adattandosi al ruolo di caporalato e i partiti storicamente vicini ai dipendenti che accettavano il principio perdente del “limitare i danni”. Magari facendo propria l’argomentazione imbrogliona che opporsi era “da conservatori”; quando il farlo è risultato subalternità bella e buona alle logiche controrivoluzionarie. O peggio: complicità.

Ecco la ragione per cui oggi nessuno parla più di “ruolo sociale dell’impresa”. Perché non c’è in campo un soggetto che imponga di parlarne grazie alla propria capacità di far pesare i propri rappresentati. Perché, essendo stato azzerato il conflitto, non si ritiene più necessario “tenere buono” chi può assicurare mediazione sociale, relazioni industriali purchessia.

Stare oggi dalla parte della Fiom significa auspicare in Italia la realizzazione di un riequilibrio nei rapporti di forza vigenti; in questa guerra non dichiarata dei potenti contro i senza potere, che non trova punti di riferimento nel quadro politico istituzionale. Anche a sinistra, dove ci si perde in manovre di palazzo fallimentari e si discute sui punti fissati dall’agenda delle priorità di Silvio Berlusconi.

Insomma, stare oggi da quella parte significa nient’altro che propugnare una democrazia normale

29 dicembre, 2010

Fassino: «Firmerei l'accordo»

''Se fossi un lavoratore della Fiat voterei si' all'accordo, tuttavia l'azienda deve avvertire la responsabilita' di compiere atti per favorire un clima piu' disteso''. Lo dice Piero Fassino, che oggi ha partecipato alla riunione congiunta delle segreterie piemontese e torinese del Pd dedicata all'accordo sul futuro di Mirafiori. Per Fassino nel caso di un eventuale no all'intesa nel referendum, ''quelli che pagherebbero sarebbero solo i lavoratori, perche' l'azienda potrebbe trasferire la produzione negli Stati Uniti o altrove''.

CARO FASSINO TE VOTERESTI SI A PRESCINDERE, MA SI SA NON HAI PROBLEMI AD IMMAGINARTI IN CATENA, AL MASSIMO PUOI GODERTI IL PANORAMA DELL'ARCIPELAGO TOSCANO DAL TUO CASOLARE DI MONTIANO.

27 dicembre, 2010

INFERNO CANTO 18 VERSI 118-119

Dante quindi inizia a descrivere i dannati che si nicchia, si rannicchiano, e che scuffano col muso, cioè sbuffano, e si picchiano con le loro stesse mani. Le pareti del fosso sono coperte da muffa per i vaporacci che vi si "appastano" dal fondo, dove è così buio che Dante deve salire proprio sopra, sul ponticello, per vedere qualcosa. Solo allora riconosce la gente tuffata nello sterco, che pareva provenire da tutte le latrine del mondo (privadi, francesismo per indicare le latrine). Dante scruta e vede uno che ha il capo "sì di merda lordo" che non si capiva nemmeno come avesse i capelli, se normali da laico o con la chierica se religioso. E il dannato gli si rivolge insolentemente: "Perché se' tu sì gordo / di riguardar più me che li altri brutti?" (vv. 118-119), al quale Dante risponde che lo fissa "Perché, se ben ricordo / già t' ho veduto coi capelli asciutti, / e se' Alessio Interminei da Lucca" (vv. 120-122). Anche qui un dannato di nuovo descritto con tono infamante e con la menzione completa del nome, per non lasciare dubbi. Il dannato dice solo che si trova lì per via di tutte le lusinghe che disse, delle quali la sua bocca non si "stuccò" mai, cioè non fu mai stanca. Apprendiamo così di essere nella bolgia dedicata agli adulatori. Viene così a delinearsi anche il contrappasso, sebbene anche in questo caso la pena abbia più un senso di infamia che di punizione dolorosa. Basti pensare come oggi si indichino volgarmente gli adulatori come "leccaculo" per capire una possibile connessione con gli escrementi.

24 dicembre, 2010

15 dicembre, 2010

LA NAVE VA...............

1867,398 miliardi di euro è il nuovo record del debito pubblico. In ottobre ci siamo divorati 23 miliardi, a settembre il debito era di 1844 miliardi. Nello stesso giorno del record che ci trascina verso l'abisso economico, il 14 dicembre 2010, alla Camera dei deputati Berlusconi ha vinto per 314 a 311.
Si è svolto nella sala di velluti rossi un confronto osceno di compari che sentono l'odore della rivoluzione nelle strade e cercano di salvarsi con un doppio carpiato come Fini, rinnegando 15 anni di inciuci come Bersani e Casini. Nell'aula ridotta a un palcoscenico di mestieranti con battute da avanspettacolo e applausi improvvisi che scacciavano la paura del futuro (come quelli alla bara portata a braccia quando esce dalla chiesa) ci sarebbe voluta la follia di un Lombroso per interpretare volti, smorfie, ghigni, gesti. Per illustrare una nuova antropologia: quella della merda. In un Parlamento di venduti non è possibile parlare di voti comprati, come non è possibile trovare vergini in un lupanare. La recita dei deputati ha avuto ancora una volta la sua rappresentazione. Attori con stipendi stellari, macchine blu, finanziamenti (furti) elettorali da un miliardo di euro bocciati da un referendum, giornalisti al loro servizio pagati con una mancia di 329 milioni mentre il Paese va a picco. Guardateli, non vi fanno schifo?
La Camera dall'alto sembrava questa mattina un ritrovo di vecchi compari, Berlusconi che accarezza il collo di Casini, il Bocchino tradito, il Fini paralizzato da una votazione che lo manda in pensione dopo 40 anni di carriera politica in cui non ha visto nulla, sentito nulla, detto nulla prima di uscire dal sarcofago, la "vajassa" di Fassino. Le labbra della Mussolini e quelle della Carfagna, gli occhiali da sole di Frattini. Le donne incinte, tra cui l'avvocatessa del prescritto per mafia Andreotti in carrozzella. La corte dei miracoli aveva più dignità, un circo ha più serietà, un bordello più dignità.
Nel 2011 la crisi economica spazzerà via questa umanità ridente che si è appropriata dello Stato e dei media. Straccioni sociali che hanno avuto nella politica l'unica via per il successo, per sentirsi importanti, indispensabili, "onorevoli". Io non salvo nessuno e auguro a tutti di ritirarsi per tempo, prima che lo faccia la Storia che è, come si sa, imprevedibile e feroce.

03 dicembre, 2010

02 dicembre, 2010

“Debito sostenibile, niente cessioni per Telecom”


FRANCESCO FASIOLO
ROMA — Il lavoro al tempo della crisi visto da Franco Bernabè.L’amministratore delegato diTelecom Italia è ospite a Repubblica Tv e risponde alle domandedi Massimo Giannini: l’occasioneper parlare di industria,sindacati e dello stato di salutedella sua azienda e dell’Italia, è la presentazione del libro di Marco Panara “La malattia dell’Occidente”.
Un Occidente in crisi, che si chiede come puntare al rilancio. «Non si fanno miracoli– avverte Bernabè – I cambiamenti repentini avvengono solo nella finanza. Ma la finanza non crea ricchezza, la sposta solamente.
È l’industria a crearla, ma con un lavoro duro e progressivo. Telecom Italia sta tornando ad essere uno dei leader delle telecomunicazioni nel mondo: abbiamo ridotto l’indebitamento e aumentato l’efficienza. Allo stesso tempo è stata rilanciata la nostra dimensione internazionale, con una forte presenza in Brasile e Argentina».

L’indebitamento però rimane alto. Si prevedono dismissioni?

«No. Oggi il nostro indebitamento è perfettamente sostenibile e si avvicina alla normalità, tenuto conto della cassa che Telecom Italia è in grado di generare. È in linea con quello di altre società. Siamo in piena ripresa dell’iniziativa tecnologica e di espansione: abbiamo annunciato l’e-reader, l ’attività sul video».

Quindi non ci saranno esuberi?

«Abbiamo chiuso un accordo sindacale il 4 agosto coinvolgendo tutte e tre le confederazioni. Tutto quello che accadrà da qui ai prossimi due anni verrà definito all’interno di quello schema condiviso. Ho appena firmato un accordo con sindacati per consentire ai nostri dipendenti di accedere all’università per riqualificarsi. La ricostruzione del valore del lavoro è una responsabilità civile e politica, prima che imprenditoriale.
Perché in fondo per un’impresa le possibilità di riallocare la produzione a livello internazionale sono molto ampie. Ma c’è una responsabilità nei confronti del paese dove l’impresa è nata, si èinsediata ed è cresciuta».

Da come parla, con una battuta, potremmo definirla l’anti Marchionne…

«Abbiamo adottato una scelta molto diversa. In termini di relazioni industriali crediamo che con i sindacati ci si debbaconfrontare».

Insomma non direbbe, parafrasando l’Ad Fiat, che senza Italia Telecom starebbe meglio.

«Direi di no».

Eppure in Italia i problemi non mancano. Cominciamo dal settore della tecnologia. Quando arriverà la banda larga?

«Telecom Italia sta realizzando la rete di nuova generazione a Roma, a Milano, ma bisognasuperare il digital divide. Erano stati promessi 800 milioni che non sono mai arrivati. Di fronte a tanti problemi questi soldi sono venuti a mancare. Abbiamo sopperito noi, anche se colmare il digital divide non è tra i nostriobblighi. Con il supporto della Banca Europea degli investimenti abbiamo investito in progetti per superare il problema dichi non ha accesso a Internet nelle aree in cui vive, perché non ci sono le infrastrutture necessarie.
Ma in Italia la banda larga che già esiste non è utilizzata come si dovrebbe. Nel nostro paesec’è un basso livello di commercio elettronico, di e-government, di servizi elettronici per icittadini».

Parliamo di crisi e della paura contagio. L’Italia è a rischio?

«Non bisogna dare segnali di preoccupazione: i mercati vogliono sicurezza e non vogliono dichiarazioni in cui si esprime paura, come quelle che abbiamo sentito nei giorni scorsi.
L’euro non è davvero a rischio. Nessuno ha un interesse oggettivo a metterlo in crisi. Certo bisogna concentrarsi sui problemi reali. In Italia si parla molto di riforme, ma a volte si fa confusione su quali siano le difficoltàstrutturali del Paese. Per prima cosa il livello troppo elevato di tassazione su famiglie e impresee poi gli eccessivi livelli di governo, regioni, province, comuni, circoscrizioni, alimentano una burocrazia improduttiva e
incompetente».

Da La Repubblica 02/12/2010 pag. 30