09 giugno, 2008

Prime riflessioni sull’annunciata ristrutturazione di Telecom Italia

La decisione assunta da Telecom di un taglio occupazionale di 5 mila unità (quasi il 10% della forza lavoro in Italia) è una decisione sbagliata, confusa, contraddittoria che comporterebbe un impoverimento, per di più traumatico, di professionalità in tutte le aree dall’azienda: dalla rete, al costumer, dal commerciale ai servizi di supporto, in contraddizione con la necessità di migliorare la qualità delle infrastrutture esistenti. Soprattutto le scelte annunciate lascerebbero incerto e indefinito il futuro di un’azienda strategica per il paese.

E’ una scelta sbagliata industrialmente perché - in assenza di un piano di sviluppo in grado di aggredire i nodi di fondo di un mercato in trasformazione (dai ricavi voce ai nuovi servizi) - rappresenta una mera operazione “di contenimento” (forse la prima di una lunga serie), esclusivamente centrata sul costo del lavoro.
Altri i nodi che andrebbero invece sciolti e che si chiamano:

• investimenti sui nuovi servizi (dalla trasmissione dati all’audiovideo);

• possibili convergenze tecnologiche in relazione al mercato domestico;

• aumento della qualità dell’attuale rete in rame (precondizione pe un
graduale passaggio alla fibra) e della sua “permeabilità” con reti mobili;

• partecipazione ad un piano di sviluppo sinergico (in relazione alle decisioni dell’ AGCOM, degli altri operatori e di nuovi possibili protagonisti) per l’aumento delle capacità trasmissive da qui ai prossimi anni;

• evoluzione delle competenze professionali e nuovi innesti di tecnici specializzati;

• strategie internazionali sui mercati emergenti (e in funzione di queste, si dovrebbe calibrare, allora, la ricerca di nuovi partners industriali e di investitori di medio periodo, altrimenti tutte le diverse operazioni possibili - come la recente emanazione di obbligazioni per 2 miliardi di dollari - non sarebbero altro che ulteriore sostegno alle rendite finanziarie degli azionisti).

In sintesi: solo se sarà chiaro lo scenario e credibili le scelte nel medio periodo sarà possibile una discussione vera sul modello organizzativo. Solo chiarito “dove si va”, si potrebbe sviluppare poi un confronto sul “come” (confronto a cui il sindacato confederale non si è mai sottratto, quando chiare sono le strategie e le finalità).

E’ una scelta confusa, inoltre, perché poco credibili sono le motivazioni finora dichiarate: la convergenza Telecom-Tim non nasce oggi e le nuove integrazioni non portano ad una duplicazione di funzioni quanto ad una loro evoluzione (e anche di questo vorremo discutere), soprattutto in un modello che passa da una divisione fisso/mobile ad una divisione per tipologia di clienti.
Se poi un confronto va aperto, più generale, sui possibili risparmi altri sono gli sprechi e le diseconomie (dall’alta percentuale di dirigenti e quadri che non conosce paragoni con nessuna azienda, anche pubblica, di TLC e che non sono interessati da alcun taglio, ai circa 800 milioni di euro che l’azienda spende in più per servizi informatici che potrebbero essere assicurati internamente, fino alla qualità dei lavori dati in appalto e ai costi dei servizi esternalizzati che sono cresciuti, a parità di volumi, rispetto a quando erano interni).
Rivendicare una continuità con la precedente gestione di Telecom, da questo punto di vista, non aiuta a capire, viste le “antiche” tentazioni di svilire la vocazione industriale dell’azienda a favore di un modello più leggero, concentrato sulla finanza. E del resto - se stessimo alle parole dell’Amministratore Delegato - ovvero sia che i tagli sono coerenti con il piano industriale di Marzo, come sindacato non potremmo non obiettare che durante l’incontro tenutosi in primavera, alla presenza delle Segreterie di CGIL, CISL e UIL, il dott. Bernabè assicurò che (cito testualmente dagli appunti presi) “risparmi e sinergie in campo tecnologico, informatico e relativamente alla rete non comporteranno tagli al personale”. O vi è stata qualche svista o ci sono ancora “carte coperte”.

Se, infine, per liberarsi da un possibile abbraccio di Telefonica, qualcuno pensa che la via da seguire sia quella di ridurre l’azienda ad operatore senza ambizioni o ad un’impresa con una “pessima rete” e poco più, si chiamino le cose con il loro nome. Così come si chiamino “valorizzazione del titolo in borsa” o “aumento del grado di apprezzamento da parte di possibili fondi di investimento” i metodi dell’annuncio dato a sorpresa, che rompono una tradizione di relazioni industriali consolidatasi nel tempo.


E’ poi una scelta contradditoria, quella annunciata da Telecom, rispetto alla volontà di rilanciare i servizi e la qualità della rete, a fronte di uno scenario possibile fatto ora di: uscita di diverse migliaia di operatori dalle aree operative (Open Access, Network, customer, ecc.; con tutto ciò che questo vuol dire in termini di aumento dei carichi per chi rimane), migliaia di mobilità professionali (dalle aree di staff alle aree di intervento diretto, a partire proprio dalle attività di supporto alla rete) con un’ulteriore fase di assestamento (riqualificazione professionale, tensioni all’interno dei reparti e dei siti, ecc.) e successivo dimagrimento delle aree collaterali alla gestione del cliente. Un terremoto di deprofessionalizzazione e riorganizzazione che coinvolgerebbe tutti i dipendenti e che si innesterebbe in un conteso fatto di scarsi interventi sulle centrali, di una qualità trasmissiva del rame sempre più scadente (con intere zone connesse con cavi datati 1960) e che, certo, non potrà resistere fino alla (possibile) sostituzione della vecchia rete con quella di nuova generazione (2015; cioè tra almeno 7 anni).

Non vorremo che allora – tutto ciò – sia la conseguenza di un’incapacità (del management Telecom e di quello degli altri principali operatori) ad affrontare la questione centrale che pesa sul futuro del settore: come lanciare veramente la rete di nuova generazione e quale equilibrio vi dovrebbe essere tra remunerazione degli investimenti, libera concorrenza, garanzia di pari opportunità, azzeramento del digital divide.

Le scelte dell’operatore “incombente” non si possono infatti leggere slegate da questo contesto. E i tatticismi della Telecom di oggi e degli altri operatori non servono a nulla, se non a rimandare il momento della verità.
Occorre affrontare il rapporto tra i diversi operatori (tutti) e l’Agcom (e la Commissione Europea), in relazione al possibile modello della rete di nuova generazione. Perché occorrono almeno 15 miliardi di euro per “fare sul serio” e non è detto che, così come è strutturato e regolamentato il mercato, tali risorse vi siano veramente (o vi sia qualcuno disposto a rischiare senza un minimo di certezze). Per questo è giunto il momento di costringere tutti a discutere del vero tema industriale in questo settore (e nel paese): senza la nuova rete si rischia di rimanere indietro e di gestire solo il declino.

La posizione del sindacato, al riguardo, è nota: è necessaria una politica regolatoria che intervenga per rimuovere i numerosi ostacoli burocratici; per incentivare la convergenza tra più segmenti tecnologici (la rete di nuova generazione non è detto sia solo via cavo); per agevolare la predisposizione di piani (e relative risorse anche comunitarie) per garantire il diritto all’accesso anche in aree economicamente non remunerative; per mettere a bando gli interventi di posa (e quindi in capo a più operatori); per stimolare altri soggetti pubblici e privati (dalle autonomie locali alle aziende multiutility, sul modello Usa); per contribuire alla nascita di una nuova domanda di servizi (dalla pubblica amministrazione on line all’ e-commerce).

E ben venga Open Access (cioè la divisione funzionale della rete, all’interno del perimetro T.I.) se – al di là di garantire livelli occupazionali e crescita delle competenze professionali – per Telecom vuol dire mantenere un’integrazione verticale per personalizzare servizi e assistenza e se, per gli altri operatori vuol dire accettare la sfida (su questo Vodafone, Fastweb, Wind, ecc. hanno forse meno alibi della stessa Telecom ed è ora che vengono allo scoperto) e predisporre piani di investimenti su un modello cooperativo (per cui tutti mettono a disposizione le proprie reti e concentrano insieme gli investimenti).

Quello che sicuramente non è pensabile è che il futuro del settore avvenga in un’ottica di scelte che non siano di sistema, in un confronto che deve essere a molte voci e non a due e che non può lasciare alla dinamica della “trattativa privata” il diritto a fissare prezzi e tariffe.
Si strozzerebbe il paese, si aprirebbero nuove contraddizioni anche sul piano occupazionale e la stessa Telecom rischierebbe di chiudersi ulteriormente nel recinto di casa, senza ricercare nuove
strade. Su questo va sfidata la capacità dei manager Telecom.

La strada possibile potrebbe essere quella di una politica regolatoria che, favorendo quel modello cooperativo di cui sopra, garantisca un periodo di “prezzi guidati”, tenendo conto degli investimenti di tutti, della qualità e tipologia di servizi offerti (sociali o di mercato), della funzione anti digital divide che alcuni operatori potrebbero svolgere. Di certo non si può più rimandare questo tipo di discussione “complessa”.

Per tutte queste ragioni – sommariamente descritte – il sindacato tutto non dovrebbe essere disponibile ad affrontare una discussione sulla riorganizzazione Telecom fatta solo di gestione dell’ennesimo taglio occupazionale. Non siamo più agli anni della privatizzazione e lo scenario (ed il mercato) è cambiato per tutti. Serve una discussione sulla strategia che il principale operatore si deve dare.
Serve una discussione sul futuro del settore e delle reti, perché ogni discussione che prescindesse da ciò non aiuterebbe i lavoratori di Telecom, l’azienda, il sistema paese.


Per questo la vertenza non potrà che vedere il coinvolgimento delle Confederazioni e dovrà chiamare tutti – per nella differenza dei ruoli – ad assumersi le proprie responsabilità (imprenditoriali, regolamentari, sociali).
Perché questo confronto si apra il sindacato dovrà essere in grado di mobilitarsi al massimo, sin dalle prossime ore, per pretendere certezze e le necessarie visibilità. Per difendere l’occupazione che c’è ed il futuro di una delle più grandi aziende private del paese.

Roma 6 Giugno 2008

Alessandro Genovesi – Segretario Nazionale SLC-CGIL

BRAVO ALESSANDRO E' ALMENO UN DECENNIO CHE SOSTENGO QUESTE COSE !!

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