Da affari e finanza LA REPUBBLICA online
IL RETROSCENA
STEFANO CARLI
La banda larga, le nuove reti in fibra ottica, si faranno. Le farà Telecom Italia ma non da sola; non le farà una società unica ma diverse; Telecom alla fine darà via la rete in rame ma ne riavrà una in fibra, debiti e investimenti avranno modulazioni diverse nel tempo (e si parla di una decina di anni). Il grande annuncio doveva arrivare oggi, ma la riunione è stata spostata a giovedì prossimo e forse si slitta ancora a fine mese. Ma le cose stanno marciando, con molta fatica e una certezza, ossia che la quadra attorno a cui si sta costruendo l’impalcatura dell’Italia digitale è una parolina inglese: «call». La prova che l’accordo è vicino? Gli esuberi Telecom. Govedì sera Bernabè ha ritirato, «casualmente» fino al 30 luglio, i 3.700 esuberi che ha usato come una clava negli ultimi giorni di una trattativa che non è certo ancora chiusa, ma che sembra ormai incanalata verso l’unico esito possibile e auspicabile: quello di un accordo.
Tutto ruota attorno alla «call», ossia una opzione a acquistare, un diritto di acquisto, anzi, di riacquisto. E è la chiave che risolve il problema della rete Telecom. Telecom conferisce la sua rete in rame: forse tutta assieme a una società mista pubblico privati a cui Telecom stessa partecipa ma più probabilmente ancora a diverse «newco» regionali o macroregionali costruite nello stesso modo. Ne ottiene denaro fresco e una «call», un diritto di riacquisto (in tempi e a valori che sono ancora tutti da definire) della rete quando lo switch off, il passaggio dal rame alla fibra, sarà stato completato. Telecom non perde la rete. Anziché investire oggi e recuperare i soldi con i ricavi nel corso degli anni, riceve subito denaro, dilaziona l’investimento e dovrà sopportare il massimo esborso finanziario al momento di «riacquistare» la rete. Ma questo avverrà tra una decina di anni e per allora Dio provvede. Intanto è salva la cassa, sono salvi i debiti, il cash flow e i dividendi degli azionisti e il futuro patrimoniale del gruppo. Ma il percorso non è ancora finito e i punti di frizione sono molti e molto complessi. A partire da quante saranno le newco, se una o di più. Intanto però il punto di arrivo è fissato. Adesso che si è capito che le reti in fibra si faranno e saranno un processo graduale, a macchia di leopardo, come piace dire al presidente dell’AgCom Corrado Calabrò, la battaglia tra Telecom e i suoi concorrenti si è accesa attorno alla conquista delle «macchie» più grasse e redditizie.
Quello che è successo negli ultimi trequattro mesi è degno di una partita a scacchi. E’ verso febbraio che le cose accelerano. La vecchia idea di togliere la rete di accesso a Telecom e passarla ad una società con la Cdp a mettere i soldi e la partecipazione di altri soggetti, dalle Poste a Mediaset, è tramontata per il no secco di Bernabè e degli azionisti Telecom, Telefonica per prima. Ma Bernabè capisce che deve provare a dare una svolta. Al tempo stesso anche i cosiddetti «Olo», gli operatori alternativi, Fastweb, Wind e Vodafone, si mettono in movimento: per loro aspettare i tempi lunghissimi dettati dai problemi degli azionisti Telecom (e il conseguente immobilismo decisionale del management) non conviene e provano a forzare la mano.
Non si sa chi sia partito prima, ma le cose sono davvero quasi contemporanee. Del progetto degli Olo si sa praticamente tutto (il cablaggio di 13 città, un investimento di 2,5 miliardi) ed è stato proprio il loro uscire allo scoperto che ha dato fuoco alle polveri. La risposta di Bernabè è stata duplice. Da una parte, ufficialmente, puntare i piedi su tutto con una serie di no che sembrano averlo portato al limite della rottura con tutti: con il viceministro alle Comunicazioni Paolo Romani a cui hanno fatto allungare i tempi di convocazione del tavolo sulla banda larga di oltre un mese; perfino con l’AgCom, che pure aveva concesso pochi mesi fa a Telecom un aumento del canone, quando Bernabè ha smentito l’affermazione di Corrado Calabrò circa il fatto che le reti mobili siano vicine al collasso (ma molti giurano che l’obiettivo di quell’uscita fosse invece il suo collega di Vodafone Paolo Bertoluzzo, le cui reti mobili sarebbero al limite di capienza per via di alcune tariffe flat). E’ infine sembrato polemizzare implicitamente, Bernabè, perfino con Corrado Passera, Ad di Intesa SanPaolo, ossia uno dei suoi azionisti, non dando seguito al suo invito, lanciato a metà giugno in un’intervista al Financial Times, di allearsi con gli altri operatori per fare assieme le Ngn. E infine, lo schiaffo dell’inizio della settimana scorsa, con i 3.700 esuberi.
In verità a molti inizia a sembrare che il gioco tra Bernabè e Passera sia quello classico del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. Con Bernabè ovviamente nella parte del cattivo.
Infatti pare che l’ipotesi di costruire il meccanismo della rete attorno al doppio passaggio di «conferimento del rame e opzione call sulla fibra» non sia venuta fuori dalle prime riunioni del tavolo Romani, con gli Ad o uomini di primissima fila di tutti gli operatori telefonici, da Telecom (che ha incaricato il capo del mercato italiano Oscar Cicchetti) a Fastweb, da Wind a Vodafone, da Tiscali a Bt Italia, ma da «fuori», dove per fuori si intende «ambienti vicini agli azionisti Telco».
Peccato però che su una ipotesi simile proprio nelle passate settimana la stessa Telecom, e non i suoi azionisti, la stesse trattando con la Regione Lombardia. E questa è stata infatti la contromossa di Bernabè.
Più o meno negli stessi giorni in cui si presentava il piano degli Olo (sigla di cui si è ormai perso il significato ma che viene dal lessico dei regolatori europei al tempo delle liberalizzazioni di fine anni Novanta e che sta per Other Local Operators, ossia i concorrenti di tutti i vecchi monopoli telefonici) anche la Regione Lombardia ha reso noto il suo piano per la banda larga. Un piano da 1,2/1,4 miliardi per portare fibra ottica in seisette anni alla metà della popolazione lombarda (con l’esclusione di Milano). Il piano prevede che il 70% dell’investimento venga dal debito e che le risorse fresche siano il 30%. Questo 30% arriverà da un meccanismo misto di cui, a spanne, la Regione dovrebbe avere un quarto, mentre il resto verrà dal ministero (si parla di Invitalia) o dalla Cdp. Ma da alcune settimane in Regione si ragiona su come far entrare nella partita Telecom Italia. E il meccanismo a cui starebbero lavorando uomini di Formigoni e di Bernabè è proprio il conferimento della rete in rame a una società veicolo con pagamento di un controvalore e il rilascio di una «call» da esercitare a fine processo (non prima del 20182019 se tutto va bene). E’ esattamente il modello su cui si lavora al tavolo Romani. Solo che qui non ci sono i concorrenti di Telecom. Ecco il nodo rimasto: Bernabè sta tirando le trattative per spuntare le condizioni migliori. E le condizioni migliori dipendono da più cose.
Un’alta valutazione della rete in rame conferita, che d’altra parte oggi è al suo massimo valore di scambio. Se gli accordi fallissero e i vari Vodafone, Fastweb e Wind iniziassero ad andare da soli (e avrebbero a quel punto le condizioni politiche e economiche per farlo, anche se più lentamente) ogni chilometro di fibra posata sarebbe un deprezzamento del rame e stavolta senza contropartita.
In secondo luogo c’è il versante regolamentare (vedi la scheda qui a destra). E infine, l’obiettivo finale di queste trattative: la spartizione delle «macchie» più ricche.
Non è un caso se Telecom sta trattando con la Lombardia. Proprio qui ha sede infatti il 20% di tutto l’It italiano. E qui la fibra non servirà tra dieci anni, ma subito. E lo stesso in tutti i maggiori distretti industriali italiani, come dice da mesi Confindustria Servizi Innovativi.
La speranza di Telecom è di provare a vincere questa partita sul versante regolamentare. La tesi degli uomini di Bernabè è che in ogni zona in cui a realizzare le reti in fibra non sia Telecom ma un altro soggetto, quella zona e quella rete non dovrebbero rientrare negli ambiti della regolazione di mercato, con i suoi diritti e doveri reciproci tra operatore dominante e concorrente. Va da sé che secondo Telecom Italia un soggetto sarebbe «altro» perfino nel caso in cui fosse una joint venture tra la stessa Telecom e un altro soggetto, privato o pubblico. Insomma, vorrebbe mani libere nelle aree più ricche del paese.
Quello che preoccupa di meno è la tecnologia o le forme societarie. Nel primo caso, si potrebbe arrivare a una soluzione mista: puntopunto subito dove conviene (come chiedono gli Olo) e GPon come chiede Telecom, come soluzione ponte ma costruito in modo che si possa passare rapidamente e senza costi aggiuntivi al puntopunto e comunque senza mai penalizzare la possibilità per i concorrenti di fare unbundling, come oggi sul rame.
Sulla forma societaria, le possibilità sono due: o quella «30%», un terzo Telecom, un terzo i concorrenti, un terzo Cdp, oppure una 40% Cdp e 60% ripartito tra gli operatori telefonici secondo le quote di mercato. Uno schema da attuare una sola volta o da replicare per quante saranno le NewCo. Sempre che Telecom non riesca a strappare la Lombardia solo per sé. Ma non sarà facile.
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