20 agosto, 2010

ECCO DOVE VORREBBERO PORTARCI


Operai sempre più poveri e più precari
Così torna in borsa General Motors

L'azienda fa ancora utili, ma Detroit è peggio di Pomigliano. La GM ha inventato i lavoratori a chiamata, senza la piena copertura sanitaria e senza anzianità
Il complimento forse più importante Barack Obama l’ha ricevuto dal’ Economis che in un editoriale oggi propone di “chiedere scusa” al presidente Usa per le dure critiche al suo piano di salvataggio che ha permesso lo scorso anno a General Motors, Ford e Chrysler di evitare o superare la bancarotta.

L’azienda simbolo della crisi americana, la General Motors, si appresta infatti a tornare in Borsa. Ha chiesto l’ammissione al listino di New York e di Toronto con un’offerta pari a circa 16 miliardi di dollari in modo da permettere di ridurre più velocemente la partecipazione del governo nella società automobilistica, che attualmente è al 61 per cento (il fondo pensione Veba al 17,5 e il governo canadese all’11,7 per cento). General Motors prevedeva di tornare in Borsa nel 2011 – il titolo fu eliminato dal listino proprio causa bancarotta – e l’anticipo sui tempi è una prova di forza che la compagnia di Detroit può permettersi in forza dei risultati ottenuti nella prima metà del 2010. Utili nel primo trimestre pari a 865 milioni di dollari saliti a 1,3 miliardi nel secondo trimestre 2010.

Meno ferie, meno bonus e meno soldi
I complimenti dovrebbero però essere girati anche ai lavoratori del colosso Usa dell’auto. Furono infatti il presidente e il vicepresidente del sindacato Uaw – United Automotive Workers – della General Motors a dover scrivere a tutti i dipendenti del gruppo per spiegare la necessità di arrivare a un nuovo “accordo” che si facesse carico della difficoltà e consentisse all’azienda di provare a recuperare competività e risorse. L’accordo è stato ovviamente firmato e poi approvato dal 74 per cento dei lavoratori anche se circa 30 mila di loro, compresi 6000 “white collar”, cioè gli impiegati, e il 35 per cento dei dirigenti, sono stati messi fuori. Per chi è rimasto si è trattato di rinunciare, almeno fino al 2015, a una parte delle ferie, ai bonus produttività, ad alcune festività e poi di sottoporsi alla riduzione della pause di lavoro (40 minuti su 8 ore), e in particolare ad assistere a un indebolimento della loro forza contrattuale con due passaggi importanti: l’istituzione di una specifica categoria “Flex Employers” cioè gli impiegati flessibili, lavoratori a disposizione part-time per i picchi di produttività ma senza la piena copertura sanitaria e senza poter accedere ai requisiti di anzianità; e poi l’introduzione di un contratto diverso, con minor stipendio e minori garanzie (12-15 dollari contro i 20-30 dollari l’ora garantiti finora) per i nuovi assunti.

Pensionati e azionisti
Ma quello che ha pesato di più nella disponibilità del sindacato è stata la trasformazione del Fondo Veba (Voluntary Employees Beneficiary Association), cioè il fondo per garantire assistenza sanitaria ai pensionati, in un azionista della società stessa. I circa 20 miliardi di dollari che la Gm avrebbe dovuto versare nel Veba si sono così ridotti a 10 miliardi con quest’ultimo che si è invece trovato a possedere il 17,5 per cento di azioni della Gm oltre a detenere un 6,5 per cento di azioni privilegiate con la distribuzione di un dividendo annuo del 9 per cento. Questa revisione ha fatto sì che gran parte delle prestazioni sanitarie agli assistiti siano state ridotte o eliminate, come le cure dentarie, e che il fondo Veba dipenda esclusivamente dalle prospettive economiche dell’azienda per dare una garanzia ai suoi dipendenti.
Quando General Motors ha annunciato il ritorno all’utile, il sindacato Uaw ha espresso orgoglio e soddisfazione: “Siamo lieti di aver contribuito al risanamento della Gm – ha detto il presidente Bob King - gli impegni, i sacrifici e il duro lavoro dei membri della Uaw alla Gm occupa un ruolo enorme in queste notizie positive che giungono dalla compagnia”.

L’ispirazione per Marchionne
Musica per le orecchie di un manager come Sergio Marchionne che con la Uaw ha avuto a che fare nel momento in cui la sua Fiat è entrata nel capitale di Chrysler. E che sta cercando di applicare il “metodo Gm” anche in Italia, a cominciare dallo stabilimento campano di Pomigliano d’Arco. Con l’intervento di Obama, 6 miliardi di dollari, il governo Usa è diventato il primo azionista della terza “casa” americana. Fiat è al 20 per cento ma con l’opzione di arrivare al 35. Marchionne ha potuto contare su un accordo con la Uaw analogo a quello di General Motors: diminuzione delle garanzie sindacali, trasformazione del fondo pensioni in azionista dell’azienda, introduzione di una seconda categoria contrattuale e, addirittura, la garanzia fino al 2015 di non subire scioperi contro gli accordi economici. Insomma, un sindacato di cui fidarsi, del tipo proposto con insistenza dalla Cisl di Raffaele Bonanni.

Per salvare l’industria dell’auto
Basterà tutto questo a salvare l’auto? Lo stesso Economist, nel suo editoriale di oggi, non ci scommette del tutto. Gli analisti statunitensi che ieri hanno commentato il ritorno in Borsa di Gm hanno messo l’accento sul fatto che la crisi è tutt’altro che finita. Il mercato delle auto è fermo, Gm continua a perdere quote di mercato (anche in Cina dove è scesa dal 17,8 al 17,6 per cento in un anno mentre negli Usa sta per essere superata da Ford), il cambio di direzione – l’amministratore delegato Ed Whitacre sarà sostituito da settembre da Dan Akerson – potrebbe produrre scompensi. Come rilevava ieri l’agenzia Bloomberg, i profitti della seconda metà del 2010 non saranno al livello di quelli del primo. Tutti elementi che non creano un buon ambiente per collocare le azioni sul mercato.

Da Il Fatto Quotidiano del 20 agosto 2010

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