10 gennaio, 2008

La riduzione del carico fiscale è una leva per ridurre le sperequazioni distributive

Felice Roberto Pizzuti

Dall'inizio degli anni '90 ad oggi, in Italia è maturata una vera e propria questione salariale carica di conseguenze sia dal punto di vista distributivo ed equitativo sia per la crescita e lo sviluppo economico. Circa il primo aspetto, basti dire che in questo consistente numero di anni i salari sono stati pressoché esclusi dalla partecipazione agli aumenti della produttività e a malapena hanno tenuto il passo con l'inflazione. Contemporaneamente, la quota dei profitti sul Pil, il prodotto interno lordo, è aumentata di circa dieci punti. E' difficile trovare altri paesi europei con una dinamica dei redditi così sperequata; il risultato è che le retribuzioni nette dei nostri lavoratori sono tra le più basse d'Europa: quelle inglesi sono superiori dell'86%, quelle tedesche del 45%, quelle francesi del 30%.
Il quadro comparativo peggiora se si tiene anche conto delle prestazioni sociali: la nostra spesa sociale rapportata al Pil è inferiore di 1,5 punti alla media europea e paesi come Germania e Francia ci distanziano di 3-5 punti.
Senza contare che (al netto del prelievo fiscale sulle prestazioni sociali il divario è ancora più elevato.
Questa accentuata redistribuzione del reddito a favore dei profitti non si è però tradotta in un aumentato stimolo per le imprese ad incrementare la crescita economica; è successo il contrario. Negli ultimi quindici anni gli investimenti privati sono cresciuti poco e male. Proprio la possibilità di contare su una bassa dinamica dei salari ha spinto le imprese a perseguire la competitività essenzialmente sul piano dei prezzi, innovando poco o niente le produzioni e i processi produttivi e concentrando gli interventi su misure di flessibilizzazione dettate essenzialmente dall'obiettivo di ridurre il costo del lavoro.
Queste caratteristiche dell'evoluzione del nostro sistema produttivo - che lo hanno reso sempre più «maturo» sul piano qualitativo, più esposto alla concorrenza dei paesi emergenti e meno dinamico sul piano della produttività - sono alla base del tanto famigerato declino italiano e del progressivo slittamento in basso del nostro paese nella divisione internazionale del lavoro.
Così si spiega anche che nonostante l'occupazione sia aumentata (siamo però ancora lontani dalle medie europee), la crescita della produzione e del Pil sia stata relativamente bassa; in ogni caso solo una sua fetta continuamente decrescente è andata ai lavoratori, mentre sono cresciuti profitti e rendite. Non è un caso che anche gli indicatori di povertà e disuguaglianza siano aumentati.
In questo contesto i sindacati hanno giustamente posto con forza la necessità di un aumento dei salari. Obiettivo che, peraltro, è oramai condivisa (almeno a parole) da tutti. Nel perseguire il suo obiettivo, il sindacato ha chiesto al governo di ridurre il carico tributario sulle retribuzioni medio-basse. In effetti, anche da un punto fiscale, negli ultimi anni, mentre le imprese hanno goduto di sgravi contributivi, i lavoratori non hanno riavuto nemmeno la restituzione del fiscal drag, il drenaggio fiscale provocato dall'inflazione.
Dunque anche il canale fiscale è da considerarsi una leva da utilizzare per ridurre le sperequazioni distributive e risollevare i salari netti. Tuttavia, per evitare possibili effetti controproducenti connessi all'uso della leva fiscale per aumentare i salari, vanno attentamente valutati alcuni rischi ben evidenziati da alcune pronte reazioni alle richieste sindacali. In un editoriale pibblicato su Il sole 24 ore del 5 gennaio, Guido Tabellini scrive che «il prelievo fiscale e contributivo sul lavoro è troppo alto. E' vero, ed è imperativo abbassarlo». Ma poco dopo aggiunge: «abbattere il carico fiscale sul lavoro è facile. Basta volerlo davvero, e agire di conseguenza anche sul lato della spesa e delle pensioni».
Dunque, permanendo la politica di bilancio del ministero dell'Economia improntata al rapido rientro del disavanzo e alla riduzione del prelievo fiscale complessivo, il serio rischio è che i lavoratori possano anche ricevere qualche aumento in busta paga, ma per dover acquistare poi sul mercato i beni e servizi prima ricevuti dallo stato sociale.
In tal modo l'obiettivo redistributivo svanirebbe e, in più, la contrazione dello stato sociale porterebbe ad una perdita di efficienza per l'intero sistema economico poiché nel campo delle assicurazioni sociali l'offerta di mercato è generalmente più costosa e meno efficace.
Un ulteriore rischio, per la struttura del nostro sistema produttivo, è che la compressione del peso tributario sul salario si risolva in un ulteriore stimolo per le imprese a perseguire la competitività fondandola sui prezzi anziché sull'innovazione. Le imprese, anziché tornare a rischiare in investimenti innovativi, potrebbero ritenere più agevole tentare di appropriarsi in qualche misura della disponibilità fiscale del governo, traducendola in riduzione del costo del lavoro o comunque in un contenimento delle rivendicazioni salariali. In particolare, la riduzione dei contributi a carico dei lavoratori - seguita, come prontamente è stato richiesto, da quella delle prestazioni sociali - offrirebbe subito il destro alla rivendicazione di tagliare anche i contributi aziendali, che costituiscono - appunto - una quota di salario.
Sottolineare questi rischi non esprime un generico pessimismo, ma riflette semplicemente l'esperienza delle politiche economiche e imprenditoriali prevalenti da un quindicennio. In ogni caso, la concretezza di tali rischi dipende non solo dalle politiche sostenute dalle singole parti in causa - sindacati, imprese, governo e le loro componenti - ma anche dalla forza contrattuale di ciascuna di esse e dalle convergenze di posizioni che possono determinarsi anche trasversalmente.
L'unità della sinistra e una più efficace azione delle sue rappresentanze politica, sindacale e istituzionale favorirebbe la possibilità di riavviare la politica economica, sociale e industriale lungo direttrici che al tempo stesso garantiscano una più equa distribuzione del reddito e una crescita qualitativa e quantitativa più adeguata.
Rispetto a questi obiettivi, è importante chiarire la questione dei rapporti tra le dinamiche dei salari e della produttività e i ruoli delle contrattazioni nazionale e aziendale. Un tema sul quale è opportuno un chiaro confronto anche dalle colonne del manifesto.

Nessun commento: