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GIOVANNI PONS
Dal piano Rovati a Open Access. Dopo oltre due anni di braccio di ferro sul delicato tema della separazione della rete Telecom, si è fissato finalmente un punto fermo con l’approvazione da parte dell’Authority per le tlc degli "Impegni" proposti da Telecom per migliorare la concorrenza e la parità di trattamento nei servizi di accesso. La spada di Damocle della separazione forzata della rete era stata sguainata ai tempi del governo Prodi quando i rapporti tra l’AgCom e la società guidata da Marco Tronchetti Provera erano ai minimi storici. Le offerte commerciali di Telecom di integrazione fissomobile venivano regolarmente frenate dal regolatore.Per contro l’accesso alla rete da parte dei terzi era rallentato da un retaggio monopolistico ancora molto forte. Un muro contro muro che rischiava di finire in una separazione della rete per legge quando nel maggio 2007 spuntò l’emendamento dell’allora ministro Gentiloni per contrastare l’ipotesi di una vendita di Telecom all’americana At&t e al messicano Carlos Slim. Tutto ciò sembra ormai alle spalle e la conferenza stampa congiunta di venerdì scorso tra l’amministratore delegato di Telecom Italia Franco Bernabè e il presidente AgCom Corrado Calabrò ha segnato nei fatti la fine delle ostilità tra regolato e regolatore in materia di accesso alla rete.
L’arrivo di Bernabè alla guida di Telecom a fine 2007 ha avuto dunque come principale risultato tangibile quello di riportare il dialogo tra l’Authority di settore e il principale operatore eliminando la minaccia dell’intervento governativo. Ma, va detto subito, Open Access non ha riportato il sereno nei rapporti con gli altri concorrenti della telefonia, i cosiddetti Olo, che negli ultimi sei mesi hanno detto a gran voce che occorre una separazione funzionale della rete molto più accentuata di quella proposta dagli impegni Telecom per garantire più trasparenza e in definitiva maggiori ritorni per gli altri operatori.
Da questo punto di vista, dunque, la conferenza stampa congiunta BernabèCalabrò viene giudicata alla stregua di un pericoloso precedente di commistione tra regolato e regolatore, una sorta di ritorno di fiamma del monopolista. E tutto ciò proprio alla vigilia di decisioni molto importanti per quanto riguarda il sistema tariffario del cosiddetto "unbundling" (la connessione sull’ultimo miglio di rete, quello che arriva fino alle case degli utenti) che influenzeranno non poco i bilanci futuri di Vodafone, Fastweb, Tiscali, Wind, Colt, Bt e altri. Telecom ha infatti già ottenuto il via libera all’aumento del canone residenziale, cioè quello pagato dalle bollette dell’utenza al dettaglio, di circa il 10%, misura che porterà nelle casse della società circa 160 milioni di euro di fatturato in più ogni anno. E ora punta a incamerare un aumento da 7,64 euro al mese a 9,39 euro per il servizio di unbundling così come è avvenuto in Gran Bretagna.
Ed è possibile che Telecom riesca anche in questo secondo colpo grazie allo «svelenimento del clima» che Bernabè è riuscito a trasfondere, come ha riconosciuto lo stesso Calabrò. Ma è un fatto che Open Access rischia di essere un primo passo verso un’ulteriore evoluzione del sistema con cui è regolata l’infrastruttura telefonica in Italia. La governance della nuova struttura esercitata attraverso un Organo di vigilanza a cui spetterà il compito di segnalare le violazioni sugli impegni presi da Telecom è ancora troppo legata all’operatore principale. I 5 membri indipendenti che la compongono saranno infatti nominati 3 dall’autorità e 2 dal cda Telecom. I concorrenti gridano allo scandalo proprio perché Open Access non opera una vera separazione funzionale dell’infrastruttura ma semplicemente una riorganizzazione interna della stessa Telecom supervisionata da persone che in parte le appartengono. In sostanza la gestione più diplomatica e più "politica" messa in campo da Bernabè avrebbe prodotto un risultato importante per l’ex incumbent rispetto ai grossi rischi corsi nelle precedenti stagioni caratterizzate da un maggiore "distacco" dalla politica. Ma il cambiamento effettivo per i concorrenti di Telecom sarebbe minimale, a sentire i commenti dei diretti interessati.
In questo quadro è interessante cercare di capire come si svilupperà il tema della rete Telecom da qui in avanti. Un argomento che andrà necessariamente a incrociarsi con il futuro della televisione in Italia, in quanto è già abbastanza chiara la tendenza al declino della Tv tradizionale "Free to air" a vantaggio della Pay Tv e della Tv on demand che si sta sviluppando attraverso il satellite e la Iptv, cioè la tv che entra nelle case attraverso il doppino telefonico o la banda larga.
Non a caso tra i maggiori sponsor di una separazione più netta dell’ultimo miglio da Telecom vi è stata anche Mediaset. La società controllata dalla Fininvest della famiglia Berlusconi punta in futuro a contrastare lo sviluppo di Sky proprio attraverso la Iptv e dunque una separazione anche societaria della rete di accesso sarebbe sicuramente attraente: Fininvest o Mediaset potrebbero addirittura acquistare una quota della "società della rete" per assicurarsi una sorta di diritto di esclusività a scapito delle tv del sempre più temibile Rupert Murdoch. Il tycoon dei media nel settembre 2006 stava per concludere un accordo con Tronchetti Provera proprio sulla Telecom ma si è lasciato sfuggire l’occasione ingolosito da una valutazione eccessiva dei propri asset (6 miliardi di euro per Sky Italia). E, ironia della sorte, ora la rete Telecom rischia di diventare il prossimo terreno di scontro tra le società del Cavaliere e quelle di Murdoch, di cui un primo assaggio si è assaporato nei giorni scorsi con la controversia sull’aumento dell’iva per la Pay Tv.
In attesa che la partita torni a scaldarsi Bernabè ha cominciato a piantare alcuni paletti ben precisi all’interno del campo da gioco. Una futura divisione anche societaria della rete dell’ultimo miglio potrà realizzarsi solo a fronte di un progetto esclusivamente industriale e non finanziario. Ben consapevole che le difficoltà in cui si dibatte la Telecom di oggi derivano in gran parte dall’Opa a debito lanciata da Roberto Colaninno nell’ormai lontano febbraio 1999, Bernabè rifugge qualsiasi soluzione che abbia a che fare con la leva finanziaria. Quindi, tra i possibili investitori della società della rete, non saranno ricompresi i fondi di private equity che solitamente nei loro investimenti inseriscono una piccola quota di capitale e una molto più elevata parte di indebitamento. Inoltre, in questo momento l’unico ente in grado di mobilitare risorse sufficienti per un investimento di questo tipo, cioè 4 o 5 miliardi di euro di capitale proprio, è la Cassa Depositi e Prestiti nella nuova versione voluta dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Così si spiegano le aperture nei giorni scorsi di Bernabè proprio in direzione della Cdp, una mossa compiuta per smuovere le acque in quella direzione. Le Fondazioni di origine bancaria, già azioniste della Cdp, potrebbero a loro volta essere favorevoli a promuovere investimenti in infrastrutture quali la rete Telecom. Ma è ovvio fin dall’inizio che il percorso non sarà semplice, necessita di un quadro regolatorio certo che consenta alla futura società della rete di ripagarsi gli ingenti investimenti necessari a sviluppare una rete in fibra ottica. Un progetto di ampio respiro per cablare le case degli italiani con un’architettura di rete innovativa: "Fiber to the cabinet" permette infatti di sostituire progressivamente il vecchio doppino in rame con la fibra, un’operazione i cui tempi sarebbero anche dettati dall’evolvere della domanda di servizi ultrabroadband, come la telemedicina o l’elearning, oggi ancora poco diffusi.
È un progetto a cui per forza possono partecipare solo investitori con un’ottica di lunghissimo periodo, come appunto la Cdp, in cui lo Stato svolge un ruolo pilota. Senza dimenticare il significato politico che ricopre il futuro della rete Telecom anche in funzione degli interessi diretti di Silvio Berlusconi nel mercato televisivo italiano. E considerando, infine, che la vendita di un 2030% della rete dell’ultimo miglio (il cui valore complessivo si aggira sui 1518 miliardi) potrebbe permettere alla società telefonica un consistente abbattimento dell’indebitamento accumulato con l’Opa e con la fusione con Tim.
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