14 luglio, 2008

Arrivano 20 mila esuberi. 10 mila nell'industria, altrettanti nei servizi

DA www.larinascita.org


Tagli all’occupazione, questa la formula proposta dalla classe dirigente del nostro capitalismo “straccione” di fronte alla crisi economica internazionale

A fronte di una produzione industriale in calo del 6,6% le aziende italiane rispondono con un piano di investimenti all’estero e con la riduzione di 10 mila posti di lavoro. Una cifra che sale fino ad oltre 20 mila se si considerano Alitalia, Telcom e Poste.

Ad essere investite dalla crisi è sia il settore pubblico che privato, da Nord a Sud, sia nella grande che nella media e piccola industria. E non ne sono esclusi neanche i servizi. Non si tratta di caro petrolio e calo dei consumi, o almeno non solo. Le cause principali sono da addebitarsi ad una classe padronale che non ha saputo - e voluto - investire i profitti nello sviluppo economico del Paese. Nessuna innovazione tecnologica nei processi produttivi e nei prodotti, nessun adeguamento ai nuovi mercati internazionali, né tanto meno ristrutturazioni aziendali capaci di rilanciare e ricollocare le produzioni e tener testa alla concorrenza mondiale. Anzi, in aggiunta, in alcuni casi ci si trova di fronte a squilibri finanziari e costi strutturali eccessivi.

Si pensi solo al caso Fiat, che mentre ricorre alla cassa integrazione nazionale - quella che lo Stato non gli ha mai negato chiedendogli conto dei profitti incassati in tanti anni - apre impianti nell’Est europeo dove la manodopera si sfrutta meglio e si paga meno. Da ultimo, ha siglato un accordo con il nemico numero uno degli Usa, l’Iran, per avviare un impianto di assemblaggio che arriverà a produrre, a pieno regime, circa 100 mila vetture.

L’elenco degli esuberi è lungo e drammatico. Nel settore degli elettrodomestici si va dalla Iar Siltal (950), alla Electrolux di Scandicci (750), alla Antonio Merloni di Fabriano (600), alla Riello di Lecco (148). E ancora, nell’elettronica sono interessate STM (1.500) e Videocon (1.000), nella comunicazione Eutelia (772), ed infine nell’arredamento, in Basilicata, la Natuzzi (1.200) e la Nicoletti (450). Per arrivare fino alle tre grandi società, a metà tra pubblico e privato: Alitalia (6.000), Telecom (5.000) e Poste (2.000).

E mentre migliaia di lavoratori rischiano il proprio posto di lavoro, c’è chi suggerisce come soluzione alla crisi occupazionale il ricorso ad «un ammortizzatore sociale che accompagni le persone a nuovi lavori, finanziato privatamente da aziende e lavoratori». A proporlo al ministro Sacconi e ai sindacati è Innocenzo Cipolletta, il presidente delle ferrovie dello Stato, che parla di «un sistema di cassa integrazione diverso e senza lo Stato, gestito dalle imprese e dai lavoratori».

Commento del blogger
Un sistema di cassa integrazione diverso dallo stato? dopo aver pagato da sempre la gescal, la cassa integrazione e fino all'ultimo centesimo di TASSE i lavoratori "dovrebbero"pagarsi gli ammortizzatori sociali. Nemmeno MAGGIE nel suo splendore era riuscita ad immaginare una cosa simile, visti i sussidi di disoccupazione ed i corsi di ricollocamento che ancor oggi vengono pagati nel Regno Unito.

Secondo Giorgio Cremaschi, della Segreteria nazionale della Fiom «il taglio occupazionale dimostra che l’Italia è, tra i Paesi industriali, uno di quelli che sta peggio avendo i salari più bassi, le condizioni di lavoro peggiori, gli orari di lavoro più alti». E ancora testimonia che la politica di bassi salari di questi anni non è servita «a creare una tenuta industriale del Paese». Di fronte a questa situazione, continua Cremaschi, «bisogna rispondere, bisogna sapere che c’è un bivio secco. Una è la linea del si salvi chi può e arrangiamoci liquidando qualsiasi elemento di solidarietà sociale. Ed è quella che propongono Governo e Confindustria e su cui temo ci sia il consenso, nei fatti, di Cisl e Uil. L’altra è quella di aprire una fase in cui, accanto alla tenuta dell’occupazione, c’è la difesa del salario e delle condizioni di lavoro. Il rischio più grave della situazione attuale è che provochi un ulteriore sprofondamento dei salari e delle condizioni di lavoro».

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