29 gennaio, 2008

IN ATTESA DELL' INCONTRO DEL 15 / 2 CON L' AD

E’ da un mese e mezzo che di Telecom Italia non si parla quasi più, tranne accenni sulle operazioni (nuove nomine e sostituzioni) che Franco Bernabè, il nuovo amministratore delegato, sta facendo all’interno del management del colosso delle telecomunicazioni italiane. Si sa che la scorsa settimana Bernabè ha riunito il cosiddetto comitato strategico e ha aperto il dossier del rilancio di Telecom sottolineando la necessità di dare un’accelerata, non solo a quella che viene definita con orrendi neologismi de-pirellizzazione o de-tronchettizzazione del management della società, ma anche al fatto che in calendario, per aprile se non andiamo errati, c’era la convocazione del consiglio di amministrazione con sul tavolo: bilancio, nuovo piano industriale e soprattutto questione dello scorporo della rete.

Bernabè, dopo la complicata vicenda Telco (la holding che ha rilevato le quote di Olimpia) e l’ingresso degli spagnoli di Telefonica, ha la necessità di ridurre l’indebitamento, di rilanciare la società e probabilmente di far sottoscrivere un sostanzioso aumento di capitale. Ora, bilancio e piano industriale sono una scadenza societaria, ma lo scorporo della rete, tanto discusso in passato e oggetto di attenzione da parte delle authority italiane ed europee, è una vicenda più complessa e da esaminare attentamente. Secondo un’interpretazione condivisa dalla maggior parte degli operatori del settore, è proprio lo scorporo della rete (probabilmente con una newco controllata, non certo una rovatiana partecipazione statale) che può assicurare il rilancio di Telecom. Giusta quindi l’accelerazione che vuole imprimere Bernabè, magari anticipando il consiglio di amministrazione ai primi del mese di marzo e chiedendo allo stesso tempo consigli e suggerimenti al Commissario europeo per Informazione e Media, Viviane Reding: fatto che sta avvenendo in queste ore da parte del nuovo presidente di Telecom Italia, Gabriele Galateri di Genola. E’ auspicabile che ci sia questa accelerazione e che la crisi di governo, in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente, non incida negativamente sui piani di rilancio della società. A marzo potrebbero arrivare integrazioni nell’attuale consiglio di amministrazione e soprattutto un piano industriale su cui i soci forti di Telco vogliono investire.

LINK ARTICOLO il VELINO

25 gennaio, 2008

BITSTREAM QUESTO SCONOSCIUTO

Nell'ultimo periodo abbiamo sentito molto parlare di "bitstream" capendo solo intuitivamente quello che in realta è per questo abbiamo preso da WIKIPEDIA la definizione seguente:

Bitstream è un servizio di interconnessione all'ingrosso che consiste nella fornitura, da parte dell'operatore di telecomunicazioni dominante nel mercato delle reti di accesso (Telecom Italia in Italia), della capacità trasmissiva tra la postazione di un cliente finale ed un punto di interconnessione o PoP (Point of Presence) di un altro operatore OLO che, a sua volta, vuole offrire servizi a banda larga ai propri clienti finali.

Si differenzia dagli analoghi servizi ULL, Shared Access e dagli altri servizi ADSL e HDSL all'ingrosso (o 'wholesale') in quanto il servizio è integralmente gestito nell'ultimo miglio dall'operatore dominante.

Telecom Italia ha pubblicato l'offerta di interconnessione per i servizi Bitstream in data 13 giugno 2007, in attesa di approvazione da parte dell'autorità di settore Agcom.

Telecom Italia fornisce i servizi bitstream mediante l’impiego delle reti di trasporto dati che essa stessa impiega nei servizi rivolti alle proprie divisioni commerciali, a società collegate o controllate per la predisposizione dei propri servizi retail a banda larga corrispondenti al Mercato n. 12 delle Comunicazioni Elettriche, fra quelli identificati dalla Raccomandazione sui mercati rilevanti della Commissione Europea n. 2003/311/CE.

Lo scorso 21 dicembre, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) ha approvato la delibera che fissa le condizioni economiche dell’offerta di riferimento di Telecom Italia per l’anno 2007 per i servizi bitstream (delibera 133/07/CIR del 2007).
La delibera ha migliorato l’offerta all’ingrosso di Telecom Italia relativa al servizio bistream, allineandola – in base all’art.23 della delibera n. 249/07/CONS - alle migliori pratiche europee in tema di pricing dei servizi bitstream e introducendo criteri di conformità ai costi di una fornitura efficiente dei servizi, di applicazione di meccanismi di recupero di efficienza sui costi e di coerenza con i prezzi dei servizi di accesso regolati in altri mercati.

Praticamente si tratta di un pedaggio dalla sede del concorrente al suo cliente.

24 gennaio, 2008

Telecom, Bernabè fa il punto della situazione

Finanzaonline.com - 24.1.08/08:41

Ieri è stato fatto il punto sullo stato di salute di Telecom Italia. Una relazione lunga e dettagliata su tutte le attività del primo operatore telefonico italiano è stata tenuta dall'amministratore delegato di Telecom, Franco Bernabè, con il comitato strategico, segnando ufficialmente il suo ritorno alla guida del gruppo. Pare che il comitato abbia espresso nel complesso un giudizio positivo alla linea definita di "attenzione e prudenza", elogiando il lavoro di inventario. Al momento, però, nessuna soluzione sarebbe stata indicata dall'a.d. al comitato anche se alcune prospettive sono state delineate. Intanto, si attente il consiglio convocato per il 4 febbraio.

21 gennaio, 2008

17 gennaio, 2008

Estratto dalla consultazione pubblica dell'AGCOM

La Posizione dei Sindacati confederali

156. CGIL, CISL, UIL e SLC, FIStel, UILCOM (di seguito complessivamente, per
brevità, il “Sindacato”) rilevano che, negli ultimi anni, il settore delle telecomunicazioni in Italia, nonostante la presenza di un alto numero di imprese ed i prezzi in forte discesa,presenta alcune criticità: investimenti inadeguati sulla rete, scarsa qualità dei servizi, forte litigiosità fra gli operatori, forte precarizzazione del lavoro. A ciò si aggiunge l’indebolimento sul piano industriale e finanziario del gruppo Telecom Italia a seguito della privatizzazione, oltre all’acquisizione da parte di società straniere di tutti i competitors dell’incumbent.

157. Il Sindacato rileva che le questioni da affrontare sono sia di carattere
regolamentare sia di politica industriale. In relazione a questo secondo punto, il
Sindacato reputa necessario il reperimento di risorse aggiuntive da destinare alle infrastrutture nelle zone che non attraggono investimenti infrastrutturali, nonché una maggiore chiarezza sulle politiche volte a favorire la convergenza di tecnologie e l’eliminazione del digital-divide.

158. Il Sindacato ritiene necessario, in attesa dello sviluppo di reti di nuova
generazione, che l’Autorità preveda forti investimenti da parte dell’incumbent e degli operatori alternativi per la manutenzione dell’attuale rete in rame al fine di assicurare la qualità del servizio per lo sviluppo dei servizi a valore aggiunto (c.d. “VAS”).

159. Per quanto riguarda le regole, il Sindacato ritiene che, ai fini della separazione funzionale, il perimetro della rete coinvolto debba riguardare la sola rete d’accesso e i servizi correlati. L’eccessivo ampliamento del perimetro coinvolto nella separazione funzionale potrebbe avere riflessi negativi sull’occupazione.

160. Per quanto riguarda l’assetto di Telecom Italia, il Sindacato non condivide l’ipotesi della separazione strutturale e proprietaria della rete di accesso, ma è favorevole al rafforzamento delle misure di separazione contabile e amministrativa previste dalla delibera 152/02/CONS ed alla separazione funzionale attraverso la costituzione di una Divisione/Unità di Business, unitamente a nuove e meno vincolanti norme sulla vendita retail per il gruppo Telecom. Il Sindacato auspica in tal senso un accordo tra Telecom Italia e l’Autorità a seguito della consultazione pubblica.

161. In relazione alla remunerazione degli investimenti nelle nuove infrastrutture, il Sindacato ritiene che la domanda vada incentivata dalla Pubblica Amministrazione e dal sistema delle imprese. Occorrerebbe, a parere del Sindacato, ricercare risorse aggiuntive per investire nei territori più disagiati e difficili da raggiungere e coordinare i piani delle imprese private con quelli di derivazione pubblica. Inoltre, le risorse necessarie allo sviluppo delle infrastrutture andrebbero ricercate anche attraverso adeguate politiche tariffarie (tariffe di terminazione). Sempre in tema di investimenti, il Sindacato ritiene che l’Italia possa fare riferimento all’esperienza francese dei c.d. “investimenti in pool”,anche per la condivisione di reti su cui vi è già stato un forte investimento da parte degli
operatori (UMTS e sue evoluzioni).

162. Il Sindacato, inoltre, rileva che la nuova rete, al fine di garantire il servizio universale, deve comprendere i nuovi servizi in banda larga che garantiscano a tutti una velocità minima di connessione, che in una prima fase (i prossimi quattro-cinque anni) non potrà essere inferiore ai 25/50 Mbps sia in down che in upstream. Inoltre, il Sindacato si manifesta contrario alla differenziazione delle tariffe e della qualità del servizio tra utenti retail e clienti business.

163. Il Sindacato, infine, sostiene che l’assegnazione delle frequenze WiMax deve
tenere conto e possibilmente sanare il digital divide nelle aree depresse ed essere
strumento per garantire il servizio universale.

E' la prima volta che chi scrive lascia su queste pagine un giudizio prettamente personale, chi scrive è una persona che ebbe il coraggio di dare del BISCHERO a Veltroni allora segretario dei DS in merito al regalo a Colaninno, e si interessa di WI-MAX da due anni, quando ancora il termine sembrava una bestemmia. Ebbene non sono daccordo con l'impostazione al punto 160è dimostrato che la "separazione funzionale" è un palliativo che non permette a Telecom Italia di risolvere i suoi problemi di debito e di investimenti, la separazione strutturale tipo TERNA, aiuterebbe sia TI che noi dipendenti, garantendoci un futuro anche professionale su una utility al riparo dai giochi finanziari. Purtroppo non sara' questa la strada, perche' la maggior parte di noi vuole contunuare a chiamarsi Telecom Italia, anzichè Telecom Network o altro.
"Non capisco ma mi adeguo"
Walter Scopetoni

15 gennaio, 2008

14 gennaio, 2008

Thyssen:Rogo? Colpa operai distratti


LINK TGCOM

NON CI SONO PAROLE PER COMMENTARE...............

Telecom, cura Bernabè la rete sarà separata e sbarcherà in Borsa

IL PERSONAGGIO / E’ PROBABILMENTE QUESTA LA STRATEGIA DEL NUOVO AMMINISTRATORE DELEGATO: SVOLTA DECISA CON IL PASSATO E SOLUZIONE UNICA PER DEBITI, RISORSE E INVESTIMENTI

STEFANO CARLI


Scorporo della rete entro l’anno. Anzi, se nulla dovesse mettersi di traverso, addirittura entro l’estate. Ma non solo uno scorporo operativo: più probabilmente ancora, una vera e propria separazione societaria. Potrebbe essere questa la svolta che Franco Bernabè sta preparando per imprimere decisamente un segno di novità e di cambiamento radicale rispetto alla gestione Tronchetti del gigante telefonico italiano. E’ questa l’ipotesi di cui si parla tra analisti, manager e addetti ai lavori delle tlc italiane. Il livello dell’ufficialità è ovviamente per ora molto più che scarno. Di sicuro c’è solo che attorno a questo schema di lavoro Bernabè è attivo in prima persona e direttamente con i suoi direttori generali.
Sul come e perché starebbe maturando questa svolta il consenso è abbastanza ampio e omogeneo. Sarebbe frutto di un ragionamento che, nei punti principali, funzionerebbe più o meno così.
1) La Telecom di Bernabè eredita da Tronchetti grosso modo tre grossi handicap: quasi 38 miliardi di debiti; un tasso di internazionalizzazione molto basso rispetto ai suoi concorrenti; rapporti deteriorati da un troppo alto livello di conflittualità con le Autorità di mercato, AgCom e Antitrust.
2) Lo scorporo della rete, anche in virtù dei pessimi rapporti con le Authority e viste le esplicite prese di posizione dell’AgCom in favore della separazione, sembra ineluttabile e la si può al massimo dilazionare, con vantaggi esigui e di breve durata e al prezzo di mantenere il gruppo nella stessa incertezza strategica dell’èra Pirelli.
3) Giocare d’anticipo e scegliere autonomamente di separare la rete risolve una prima metà del problema (è lo stesso ragionamento fatto un anno fa in Gran Bretagna da Bt), rasserena i rapporti con le Autorità (e anche con la politica), taglia drasticamente i contenziosi (che costano) e dà una prima correzione sostanziale all’immagine esterna del gruppo
4) Andare anche oltre Bt (la cui OpenReach è alla fine solo una divisione del gruppo, anche se con una sua specifica governance) e creare una società separata da portare rapidamente in Borsa, risolverebbe anche l’altra metà del problema: abbatterebbe i debiti e ridarebbe al gruppo i margini per riprendere quella campagna di acquisizioni internazionali il cui annuncio è stato il primo segnale di novità che Bernabè ha voluto lanciare ai mercati al momento del suo insediamento.
Può sembrare contraddittorio che proprio dopo quell’annuncio, che Telecom deve pensare più a comprare che a vendere, la prima notizia di un’operazione sia ancora una dismissione. Il gruppo ha infatti appena dato mandato alla banca d’affari Calyon, del gruppo Credit Agricole, di raccogliere offerte per Alice France, la sua filiale transalpina che ha oltre 800 mila abbonati a banda larga ma è in perdita e senza prospettive di crescita. Ma è una contraddizione solo apparente. Anzi, è una conferma. Perché dice che in Europa il processo di consolidamento delle telecom è in atto: ci sono realtà in movimento, società in vendita e si possono fare dei buoni affari. A saper scegliere e soprattutto ad avere soldi.
Proprio per questo Bernabè ha fretta. La vendita di Alice France è una mossa obbligata. Il mercato francese è in questo momento il più difficile d’Europa perché lavora a prezzi bassissimi e a margini minimi. Ma vendendo ora il gruppo può far cassa per circa 600650 milioni di euro. E per la prima volta sarebbero soldi che non andranno a ridurre il debito ma a finanziare la crescita. Sono risorse che possono dare il via alla nuova campagna di espansione di Telecom. A dare il via, appunto, ma non a portare avanti. Per quello serve ben altro.
Ma Bernabè ha già fatto vedere, in questi primi 50 giorni da numero uno di Telecom, che sta cercando di muoversi su un sentiero molto stretto: deve fare in fretta ed essere molto prudente al tempo stesso.
Lo prova il fatto che ha finora portato con sé solo due manager: Oscar Cicchetti e Luca Tommasini. Conosce troppo bene il gruppo per azzardare mosse affrettate. Conosce ancora meglio il funzionamento delle grandi organizzazioni per sapere quanto sia difficile integrare le culture manageriali. E Telecom Italia di culture manageriali ne ha dovute assorbire più di una in pochi anni e non le ha ancora digerite bene tutte. Sulla vecchia cultura Stet, dell’epoca delle Partecipazioni Statali, forse non rigorosa nella gestione ma preparatissima nella parte tecnologica ha subito prima l’impatto della privatizzazione, poi l’arrivo dei famosi ‘Ruggiero Boys’. Un gruppo di una cinquantina di persone importate in blocco dalla Infostrada olivettiana orientato più al marketing che alla tecnologia, e insediato ai vertici della società, con cui non ha però mai avuto una forte integrazione. Su questa situazione un po’ mal digerita si è poi abbattuto il ciclone Pirelli, con i suoi uomini d’ordine che ragionavano solo in termini di parametri finanziari e di trimestrali, più attenti alle oscillazioni del titolo che al funzionamento dei prodotti. E proprio dai prodotti e dal mercato interno Bernabè si attende i risultati più consistenti in questo primo periodo, la capacità di difendere e anche far crescere la redditività mentre la quota di mercato tenderà inesorabilmente a calare. Poi si tratta di decidere le nuove strategie estere. Ma quale estero?
Il Sud America non sembra poter offrire più dell’esistente. Il Brasile per un paio d’anni può solo pensare a consolidare la sua quota di mercato e a navigare a vista con la madre di tutti i problemi di casa Telco: il fatto di avere come primo concorrente proprio il suo stesso maggiore azionista, Telefonica. L’Argentina in compenso sembra aver ripreso la strada della crescita.
In Europa, dalla Francia non si poteva che uscire. Cosa resta? Come prima cosa la Germania. Il mercato tedesco è ancora indietro nel consolidamento e offre ancora buoni margini. E in Germania Telecom è ben posizionata: Alice Germany ha oltre 2 milioni di utenti a banda larga ed è il secondo Internet provider tedesco. C’è allora da farsi trovar pronti nel momento in cui anche in questo mercato ci saranno buone medie società in vendita. E poi guardare verso est, ma più restando in Europa che spingendosi fino in Asia.
Per arrivare a questo obiettivo, e arrivarci presto, gli ostacoli da superare sono parecchi. Ma il primo e decisivo è nel consiglio di amministrazione. La separazione della rete non piace a Telefonica. Più per timore degli inevitabili riflessi che la decisione italiana avrebbe sul mercato domestico spagnolo, che non per considerazioni legate a Telecom Italia. Anche se c’è chi ipotizza, con un po’ di fantapolitica, che Telefonica potrebbe anche acconsentire, se questa mossa, una volta messa in salvo la rete in ‘mani italiane’ (anche se nessuno pensa più alla Cassa Depositi e Prestiti) fosse il via libera ad una più completa e definitiva presa di controllo di Telecom, con una quota ben oltre il 10% e fuori dai patti di Telco. Ma qui siamo alla speculazione pura.
Che Telefonica sia tiepida sul tema è comunque un fatto. Ma anche gli spagnoli sono coscienti che con tutto questo debito Telecom è una preda scalabile da chiunque abbia sufficienti risorse per fare l’offerta prima e spezzettare e vendere il tutto dopo, Non è certo operazione da questi tempi, visto lo stato di salute delle grandi banche. Ma tra un anno, passate le tempeste finanziaria e dei listini, e stabilizzati i tassi a qualcuno potrebbe sempre venire in mente. E allora tanto vale fare la mossa da soli e subito.
Se Telefonica leverà il veto, l’obiettivo della separazione societaria in sei mesi è fattibile: Idem la Borsa entro fine anno. Ci saranno le difficoltà delle tecnicalità, ma non sono insuperabili.
Quanto può valere una ipotetica Telecom Network? Tra le banche d’affari londinesi girano tre progetti, che ipotizzano da un minimo di 10 ad un massimo di 30 miliardi di euro. Dipende da che cosa ci va dentro: se solo la rete fissa o anche la mobile. E da come si valutano i diversi pezzi di asset: i cavi, le centrali, i server.
Ad ipotizzare così, a spanne, una prima idea di come potrebbe funzionare il tutto, si può immaginare un asset valutato sui 16<\->18 miliardi, compresi però circa 7<\->8 miliardi di debiti. Quotando in Borsa una società con un patrimonio netto di 10 miliardi e cedendone anche il 49% , Telecom si troverebbe ad avere un «suo» debito netto abbattuto a poco sopra i 20 miliardi. Senza contare che nella società della rete potrebbero finire tra 15 e 25 mila degli attuali 80 mila dipendenti. E infine un drastico taglio al livello di investimenti sul mercato domestico perché la realizzazione delle reti di nuova generazione in fibra ottica resterebbero in capo alla Rete: la società sarebbe a quel punto una pura utility, ossia quel tipo di società che molto piace ai grandi investitori istituzionali perché meglio di tutte regge alle tempeste di Borsa. Anche molto meglio delle media company sognate da Tronchetti.

LINK AFFARI & FINANZA

10 gennaio, 2008

La riduzione del carico fiscale è una leva per ridurre le sperequazioni distributive

Felice Roberto Pizzuti

Dall'inizio degli anni '90 ad oggi, in Italia è maturata una vera e propria questione salariale carica di conseguenze sia dal punto di vista distributivo ed equitativo sia per la crescita e lo sviluppo economico. Circa il primo aspetto, basti dire che in questo consistente numero di anni i salari sono stati pressoché esclusi dalla partecipazione agli aumenti della produttività e a malapena hanno tenuto il passo con l'inflazione. Contemporaneamente, la quota dei profitti sul Pil, il prodotto interno lordo, è aumentata di circa dieci punti. E' difficile trovare altri paesi europei con una dinamica dei redditi così sperequata; il risultato è che le retribuzioni nette dei nostri lavoratori sono tra le più basse d'Europa: quelle inglesi sono superiori dell'86%, quelle tedesche del 45%, quelle francesi del 30%.
Il quadro comparativo peggiora se si tiene anche conto delle prestazioni sociali: la nostra spesa sociale rapportata al Pil è inferiore di 1,5 punti alla media europea e paesi come Germania e Francia ci distanziano di 3-5 punti.
Senza contare che (al netto del prelievo fiscale sulle prestazioni sociali il divario è ancora più elevato.
Questa accentuata redistribuzione del reddito a favore dei profitti non si è però tradotta in un aumentato stimolo per le imprese ad incrementare la crescita economica; è successo il contrario. Negli ultimi quindici anni gli investimenti privati sono cresciuti poco e male. Proprio la possibilità di contare su una bassa dinamica dei salari ha spinto le imprese a perseguire la competitività essenzialmente sul piano dei prezzi, innovando poco o niente le produzioni e i processi produttivi e concentrando gli interventi su misure di flessibilizzazione dettate essenzialmente dall'obiettivo di ridurre il costo del lavoro.
Queste caratteristiche dell'evoluzione del nostro sistema produttivo - che lo hanno reso sempre più «maturo» sul piano qualitativo, più esposto alla concorrenza dei paesi emergenti e meno dinamico sul piano della produttività - sono alla base del tanto famigerato declino italiano e del progressivo slittamento in basso del nostro paese nella divisione internazionale del lavoro.
Così si spiega anche che nonostante l'occupazione sia aumentata (siamo però ancora lontani dalle medie europee), la crescita della produzione e del Pil sia stata relativamente bassa; in ogni caso solo una sua fetta continuamente decrescente è andata ai lavoratori, mentre sono cresciuti profitti e rendite. Non è un caso che anche gli indicatori di povertà e disuguaglianza siano aumentati.
In questo contesto i sindacati hanno giustamente posto con forza la necessità di un aumento dei salari. Obiettivo che, peraltro, è oramai condivisa (almeno a parole) da tutti. Nel perseguire il suo obiettivo, il sindacato ha chiesto al governo di ridurre il carico tributario sulle retribuzioni medio-basse. In effetti, anche da un punto fiscale, negli ultimi anni, mentre le imprese hanno goduto di sgravi contributivi, i lavoratori non hanno riavuto nemmeno la restituzione del fiscal drag, il drenaggio fiscale provocato dall'inflazione.
Dunque anche il canale fiscale è da considerarsi una leva da utilizzare per ridurre le sperequazioni distributive e risollevare i salari netti. Tuttavia, per evitare possibili effetti controproducenti connessi all'uso della leva fiscale per aumentare i salari, vanno attentamente valutati alcuni rischi ben evidenziati da alcune pronte reazioni alle richieste sindacali. In un editoriale pibblicato su Il sole 24 ore del 5 gennaio, Guido Tabellini scrive che «il prelievo fiscale e contributivo sul lavoro è troppo alto. E' vero, ed è imperativo abbassarlo». Ma poco dopo aggiunge: «abbattere il carico fiscale sul lavoro è facile. Basta volerlo davvero, e agire di conseguenza anche sul lato della spesa e delle pensioni».
Dunque, permanendo la politica di bilancio del ministero dell'Economia improntata al rapido rientro del disavanzo e alla riduzione del prelievo fiscale complessivo, il serio rischio è che i lavoratori possano anche ricevere qualche aumento in busta paga, ma per dover acquistare poi sul mercato i beni e servizi prima ricevuti dallo stato sociale.
In tal modo l'obiettivo redistributivo svanirebbe e, in più, la contrazione dello stato sociale porterebbe ad una perdita di efficienza per l'intero sistema economico poiché nel campo delle assicurazioni sociali l'offerta di mercato è generalmente più costosa e meno efficace.
Un ulteriore rischio, per la struttura del nostro sistema produttivo, è che la compressione del peso tributario sul salario si risolva in un ulteriore stimolo per le imprese a perseguire la competitività fondandola sui prezzi anziché sull'innovazione. Le imprese, anziché tornare a rischiare in investimenti innovativi, potrebbero ritenere più agevole tentare di appropriarsi in qualche misura della disponibilità fiscale del governo, traducendola in riduzione del costo del lavoro o comunque in un contenimento delle rivendicazioni salariali. In particolare, la riduzione dei contributi a carico dei lavoratori - seguita, come prontamente è stato richiesto, da quella delle prestazioni sociali - offrirebbe subito il destro alla rivendicazione di tagliare anche i contributi aziendali, che costituiscono - appunto - una quota di salario.
Sottolineare questi rischi non esprime un generico pessimismo, ma riflette semplicemente l'esperienza delle politiche economiche e imprenditoriali prevalenti da un quindicennio. In ogni caso, la concretezza di tali rischi dipende non solo dalle politiche sostenute dalle singole parti in causa - sindacati, imprese, governo e le loro componenti - ma anche dalla forza contrattuale di ciascuna di esse e dalle convergenze di posizioni che possono determinarsi anche trasversalmente.
L'unità della sinistra e una più efficace azione delle sue rappresentanze politica, sindacale e istituzionale favorirebbe la possibilità di riavviare la politica economica, sociale e industriale lungo direttrici che al tempo stesso garantiscano una più equa distribuzione del reddito e una crescita qualitativa e quantitativa più adeguata.
Rispetto a questi obiettivi, è importante chiarire la questione dei rapporti tra le dinamiche dei salari e della produttività e i ruoli delle contrattazioni nazionale e aziendale. Un tema sul quale è opportuno un chiaro confronto anche dalle colonne del manifesto.

09 gennaio, 2008

Telecom I.: da gennaio parte discussione su governance (MF)

MILANO (MF-DJ)--"Il comitato di controllo di Telecom I. si riunira' a fine gennaio per fare il punto sulla questione governance. In particolare, l'incontro servira' anche per esaminare la creazione di un organismo di controllo composto solo da consiglieri indipendenti, che garantiscano la correttezza dei rapporti con Telefonica (azionista di Telco con il 42% circa e concorrente di Telecom in alcuni paesi, come il Brasile e l'Argentina)".

E' quanto si legge in un articolo di MF, secondo cui i membri del comitato, Domenico De Sole, Paolo Baratta, Luigi Fausti e Cesare Giovanni Vecchio, si sarebbero gia' confrontati informalmente anche sulla riduzione del numero dei consiglieri, la trasparenza nelle informazioni, la definizione del ruolo dei comitati forse sul modello dualistico.

La riunione del comitato di controllo precedera', come di consueto, il Cda di Telecom Italia di lunedi' 4 febbraio, nel quale con tutta probabilita', anche se manca ancora l'ordine del giorno, si discutera' sulle linee guida dei nuovi vertici, compresa la questione relativa alla vendita di Alice France. Red/mur



(END) Dow Jones Newswires

January 09, 2008 03:10 ET (08:10 GMT)

Copyright (c) 2008 MF-Dow Jones News Srl.

07 gennaio, 2008

Il demansionamento legalizzato

Quattro sentenze della Cassazione hanno stravolto le garanzie dello Statuto dei lavoratori. I giudici, sostituendosi al legislatore, autorizzano le parti sociali a contrattare lo status professionale

Mario Meucci

Quattro sentenze intercorse tra il novembre del 2006 e il dicembre 2007 (1) hanno effettuato una operazione stravolgente della normativa dello Statuto dei lavoratori sulla professionalità, nell’ottica di una cosiddetta «flessibilizzazione», sostantivo che sappiamo bene cosa celi dietro. Sostanzialmente la Cassazione ha detto che – rendendosi interprete anche delle «recriminazioni» della dottrina (certamente dei supporters delle associazioni imprenditoriali) - è maturo il tempo dell’abbandono della difesa della cosiddetta «professionalità statica» per dar spazio all’introduzione della «professionalità dinamica» o «potenziale».

Cosa significa in parole povere? Significa che il lavoratore che nel corso del suo rapporto di lavoro ha raggiunto una posizione ambita o un ruolo manuale specializzato (es. fresatore, tornitore, alesatore, fonditore, pittore, muratore, ecc.) ovvero un omologo ruolo di specialista settoriale di natura concettuale (legale, fiscalista, analista di bilanci, esperto informatico, analista finanziario ecc.), può vedersi richiedere dall’azienda - per cosiddette esigenze di servizio o tecnico/produttive - di spostarsi in mobilità orizzontale (o anche discendente) su altre posizioni di lavoro diverse e soggettivamente carenti di requisiti di omogeneità, se non quella che lega la comune matrice «manuale» delle mansioni operaie o ausiliarie e la comune matrice «concettuale» delle mansioni impiegatizie.

C’è da chiedersi come possa essere stata legittimata questa nuova concezione della divisione funzionale del lavoro in omaggio alle esigenze aziendali, considerato che il vigente art. 2103 c.c. si differenziò dal vecchio per aver deliberatamente espunto qualsiasi richiamo alle «esigenze dell’impresa». Facendosi salve – interpretativamente – quelle richieste dalla sicurezza e dalla salvaguardia degli impianti. La norma contro i declassamenti fu concepita – in funzione antielusiva – pertanto in maniera del tutto rigida. Poi smussata dalla giurisprudenza e dal legislatore che consentirono il cosiddetto «patto di declassamento» per i riassorbiti dalla Cig, per il colpito da sopravvenuta inidoneità alle originarie e più gravose mansioni, per i disabili con residua capacità lavorativa, sancendo l’onere datoriale di repêchage, in omaggio alla conservazione del bene (superiore alla professionalità) della conservazione del posto di lavoro.

Ma le aziende non si erano affatto rassegnate a subire la rigidità garantista dell’art. 2103 del codice civile. Così, con la forza e la perseveranza loro propria, convincevano le organizzazioni sindacali a pattuire le cosiddette «clausole di fungibilità» nelle aree professionali, atte a consentire l’avvicendamento e lo spostamento del personale a mansioni classificate nei ccnl come «omogenee» ma in concreto «eterogenee». Nasceva così – nei contratti nazionalil delle Ferrovie, delle Poste e del credito - la figura (insicura e precaria) del lavoratore «polivalente», spregiativamente «tuttofare» o «tappabuchi».

La Cassazione – in luogo di invalidare queste clausole dichiaratamente tese ad una gestione flessibile della forza lavoro – le ha invece legittimate, con espressa autorizzazione alle organizzazioni sindacali di porle in essere (anche per deflazionare l’entità dei ricorsi).

Revocando le (già poche) garanzie per il lavoratore, sono state così soddisfatte due esigenze: a) quella aziendale di precludere per il futuro qualsiasi rifiuto, dato il salvacondotto da invalidazioni giudiziali delle sanzioni irrogate ai cosiddetti riottosi ; b) quella della magistratura di azzerare (d’ora in poi) il contenzioso in tema di demansionamenti.

Così operando la Cassazione si è sostituita – nel conferire la delega agli agenti contrattuali a pattuirle – al legislatore, in un ambito che è quello dei diritti soggettivi di status professionale del lavoratore non comprimibili neppure dai contratti nazionali. Resta da chiedersi come i sindacati intendano muoversi a fronte dell’«autorizzazione/trabocchetto» loro indirizzata dagli «ermellini». Speriamo, davvero, non con l’acquiescenza riscontrata esemplificativamente nei precitati contratti nazionali.

Nota(1) Cass. SU n. 25033/06, n. 5285/07, n. 8596/07, n. 25313/07, allo stato
(31/12/2007)
LINK ARTICOLO EGUAGLIANZA E LIBERTA'

06 gennaio, 2008

Articolo del sole 24 ore ripreso dal blog di Quintarelli

Quinta's Blog

Telecom, rete e medicine amare

di Antonella Olivieri
Accontentarsi del mercato domestico e aspettare l'abbraccio con Telefonica oppure tornare a crescere all'estero e giocarsi il futuro?
Telecom Italia è a un bivio. Nel 2008 dovrà decidere come muoversi e non avrà molto tempo per farlo. Se volesse rassegnarsi a un destino da " utility" nazionale non avrebbe molto da fare se non trattare la sua posizione di rendita con le autorità locali, ammesso che siano accondiscendenti. Ma se nutrisse maggiori ambizioni, dato che dei big europei Telecom Italia è quella che fattura meno all'estero, il problema urgente sarebbe quello di recuperare flessibilità finanziaria.
Con un indebitamento finanziario netto pari a circa 3 volte l'Ebitda, i margini sono limitati. Per riaprire un orizzonte di crescita, secondo gli analisti, occorrerebbe ricondurre il rapporto net debt/Ebitda a 2, cioè abbassare il debito di 12,5 miliardi. Tagliare le cedole non servirebbe a molto. Il gruppo ha pagato infatti dividendi per poco meno di 3 miliardi: se volesse ridurli, diciamo al livello di Telefonica (in termini relativi), risparmierebbe meno di un miliardo all'anno.Per contro rischierebbe però la disaffezione degli investitori che negli ultimi anni sono stati "viziati" da rendimenti vicini al 7% sulle ordinarie e anche superiori al 9% sulle risparmio. Generosità che peraltro non teme confronti né da parte di una grande utility come l'Enel (il dividend yield attuale si aggira intorno al 6%), né da parte di un big del petrolio come l'Eni (ilcui "rendimento" è vicino al 5%).
Per incidere davvero sul debito non ci sarebbero che due opzioni, entrambe in qualche modo medicine amare. E cioè avviare un aumento di capitale "monstre" per un importo pari a un terzo dell'attuale capitalizzazione di Borsa oppure staccare la rete per cederne una parte a terzi o sul mercato, modello Terna.
La prima strada sarebbe percorribile se il gruppo di azionisti di riferimento riuniti in Telco (Telefonica, Mediobanca, Generali, Intesa-Sanpaolo, Sintonia- Benetton) fosse disposto a mettere mano al portafoglio e se le banche fossero disponibili a sobbarcarsi anche l'inoptato del mercato, considerato che il "flottante" è pari a ben il 76 per cento.
La seconda farebbe di Telecom Italia un pioniere in terra inesplorata, perché finora nessun ex-monopolista si è privato della proprietà della rete. Neppure British Telecom: Openreach è separata funzionalmente dalla casa madre, a garanzia dei concorrenti, ma il capitale è detenuto da BT. Telecom avrebbe l'onore e l'onere della prima mossa, un passo che potrebbe dimostrarsi vincente se il gruppo riuscisse a consolidare i vantaggi di breve periodo o al contrario rivelarsi un azzardo se la proprietà della rete, l'elemento che caratterizza l'incumbent rispetto agli sfidanti, dovesse confermarsi un fattore strategico cruciale.
Lo scorporo della rete, sotto il profilo finanziario, produrrebbe vantaggi immediati. Tutta l'infrastruttura (non solo il cosiddetto "ultimo miglio") ha un valore stimabile in 25-30 miliardi, con il debito caricabile che potrebbe variare da 10 a 20 miliardi. Da una parte Telecom potrebbe incassare somme importanti e/o abbattere il debito in misura sufficiente a recuperare la necessaria flessibilità finanziaria. Dall'altra anche il titolo Telecom ne beneficerebbe. Infatti poiché l'enterprise value di Telecom Italia è di circa 75 mi-liardi, metà equity e metà debito, scambiare una parte di debito con cash avrebbe l'effetto di aumentare l'equity con conseguente rivalutazione del titolo in Borsa.
Certo dovrebbe essere esaminato anche l'effetto tasse. Dato che la rete è in carico a meno di 10 miliardi, la "valorizzazione" dell'asset, intesa come vendita, comporterebbe infatti per Telecom un salasso da 5-7 miliardi, uno scoglio su cui già in passato si erano arenati i progetti di scorporo.
Ma l'incognita principale resta di natura strategica. Poiché separarsi dalla rete significherebbe rinunciare a un reddito "certo" - secondo il cosiddetto "piano Rovati" a 3-4 miliardi di Ebitda - Telecom dovrebbe dimostrare di essere in grado di compensare impiegando le risorse in business magari meno sicuri,ma senz'altro più profittevoli.
Mosse dunque che Telecom non può permettersi di sbagliare: nel 2008 non solo il nuovo management, ma l'intero gruppo, si gioca il tutto per tutto.